Nel passato ogni paese aveva un proprio tempo, fondato sul moto apparente del sole. Era misurato con il quadrante solare o la meridiana e quando il Sole passava per il meridiano locale era mezzogiorno. Purtroppo il Sole non è un orologio esatto per la mancanza di regolarità del suo moto apparente lungo l’eclittica e la durata del giorno, definita come l’intervallo tra due passaggi successivi del Sole al meridiano, è variabile. Queste differenze forse erano sfuggite agli antichi, che non avevano strumenti di misura precisi, ma erano ben conosciute dal 1657 in poi, con la scoperta dell’isocronismo delle oscillazioni del pendolo e la sua applicazione agli orologi. Gli orologiai di Parigi avevano adottato il motto: solis mendaces arguit horas per convincere i loro clienti della bontà dei loro orologi, che segnavano un tempo diverso da quello indicato dal Sole. Per ovviare a questo inconveniente fu introdotto un Sole fittizio, capace di muoversi regolarmente. In tale modo si può definire un giorno medio, costante tutto l’anno, e un tempo medio, diverso dal tempo vero. La differenza tra i due mezzogiorni (vero e medio) è compresa tra circa 16 minuti in più e 14 minuti in meno, valori estremi che sono raggiunti solo due volte l’anno; di solito la differenza è compresa entro i 5 minuti (circa 200 giorni) e in 4 giorni i due mezzogiorni coincidono.
La prima città ad usare il tempo medio fu Ginevra nel 1780 con il tocco della grossa campana del Duomo per annunziare il mezzogiorno, naturalmente medio. Londra introdusse il tempo medio nel 1792, Berlino nel 1810 e Parigi nel 1816. A Parigi il prefetto chiese un apposito rapporto al Bureau des Longitudes per rassicurare la popolazione, che temeva che il nuovo tempo potesse portare soprusi nel calcolo delle ore di lavoro (infatti, il mezzogiorno medio divideva in due parti diseguali l’intervallo fra il tramontare e il sorgere del Sole). In Italia il tempo medio fu adottato a Torino nel 1852, a Bologna nel gennaio 1858 e a Milano il 14 febbraio 1860. A Roma il tempo medio fu introdotto nel 1855 informalmente, ossia senza nessun decreto governativo, ma come conseguenza dello sviluppo delle ferrovie e del telegrafo. I conducenti delle vetture postali regolavano ogni mattino il loro orologio alla stazione di partenza, comunicavano poi l’ora al sagrestano e ai postini che la distribuivano alle case.
Tutti i paesi che sono situati su un medesimo meridiano contano, nello stesso istante, lo stesso tempo locale (medio o vero), ma, sempre nello stesso istante, il tempo locale è differente da paese a paese, quando questi non si trovano sullo stesso meridiano. I loro tempi locali differiscono di una quantità costante che è uguale alla differenza di longitudine tra i due luoghi (per ogni grado di longitudine verso ovest il mezzogiorno locale capita quattro minuti più tardi). In genere non si ha idea del modo rapido con cui variano i tempi locali al variare della longitudine; ad esempio, alla nostra latitudine, la variazione del tempo locale è già di un minuto per soli 20 chilometri di distanza in senso est-ovest.
La discordanza dei tempi locali, mentre non era notata nell’ambito della comunità locale, cominciò a creare problemi quando le persone iniziarono a spostarsi facilmente tra città e province diverse, cosa resa possibile dallo sviluppo delle ferrovie. Una volta, solo con viaggi della durata di parecchi giorni, si poteva percorrere una differenza di longitudine di un’ora e nelle relazioni commerciali non si badava ad un’incertezza, nella determinazione del tempo, anche di una frazione d’ora. Le ferrovie (e il telegrafo) imponevano, invece, di tenere conto dei minuti e delle loro frazioni.
Era necessario ripensare il sistema del tempo, soprattutto per le ferrovie che dovevano funzionare con regolarità e sicurezza. All’inizio, infatti, non esistevano che tronchi isolati e l’ora che regolava la loro attività era quella della città principale da cui partiva il tronco. Diventando però la struttura ferroviaria più complessa, si formarono tante ore ferroviarie quante erano le città principali e nelle stazioni di passaggio da un tronco all’altro si passava dal regime di un’ora a quello di un’altra.
Riprendendo un’idea formulata nel 1828 dall’astronomo John Herschel, venne proposta un’unificazione regionale o anche nazionale delle diverse ore ferroviarie, cioè un’ora ferroviaria unica (generalmente quella della capitale o di una città opportuna). Quest’unificazione venne attuata per la prima volta nel 1848 in Gran Bretagna (ora di Greenwich per l’Inghilterra e la Scozia, e ora di Dublino per l’Irlanda) e tale ora venne estesa anche alla vita pubblica. Era comune in Inghilterra, anche all’inizio del secolo XX, quando si parlava del tempo di Greenwich, chiamarlo tempo ferroviario. In Italia, nel 1866, erano sei le ore ferroviarie (Torino, Verona, Firenze, Roma, Napoli, Palermo). In quell’anno fu deciso di unificarle adottando il tempo medio di Roma (anche se non faceva parte del Regno). Il 12 dicembre 1866, coll’attivazione dell’orario invernale, esso venne introdotto nelle ferrovie, poste e telegrafi, non solo nel servizio interno, ma anche nei rapporti col pubblico. Inoltre, non per legge, ma per libera iniziativa delle principali città italiane, con motivazioni legate ai vantaggi pratici derivanti dalla concordanza dell’ora ferroviaria con quella cittadina e anche per motivi patriottici, venne deciso di estendere l’ora di Roma alla vita pubblica e privata, diventando in sostanza un’ora nazionale. Milano regolò gli orologi pubblici sul tempo di Roma lo stesso 12 dicembre 1866, Torino e Bologna il 1 gennaio 1867, Venezia il 1 maggio 1880 e ultima Cagliari nel 1886. L’ora nazionale era stata precedentemente adottata dalla Gran Bretagna, come abbiamo visto, e venne adottata dalla Svezia nel 1879, che fece una scelta rivoluzionaria adottando non l’ora di Stoccolma, ma quella del meridiano di Greenwich. La Francia introdusse l’ora nazionale unicamente dal 14 marzo 1891, usando il tempo di Parigi. Una piccola curiosità: nella stazioni ferroviarie francesi gli orologi esterni erano regolati sul tempo di Parigi, mentre quelli interni erano in ritardo di 5 minuti; questo per fare fretta ai viaggiatori.
Se il passaggio dal tempo locale all’ora ferroviaria e poi all’ora nazionale permetteva di raggiungere una un’uniformità di misura del tempo all’interno d’ogni Stato, rimaneva il grosso problema della diversità d’ora quando si passava il confine. Guardando un vecchio orario ferroviario, c’era per l’Italia una differenza di 47 minuti con l’ora ferroviaria francese, di 20 minuti con quella svizzera, e di 10 con l’ora ferroviaria austro-ungarica. Per i lunghi viaggi le cose si complicavano, essendo necessario passare attraverso più stati: da Roma a Pietroburgo c’erano 7 diverse ore e ben 12 da Parigi a Costantinopoli, senza contare le ore prussiane, numerose quanto le stazioni (con il sistema prussiano gli orari ferroviari per il pubblico erano compilati sulle ore locali, mentre per il personale del treno, che non poteva regolarsi su ore variabili da luogo a luogo, erano disponibili appositi orari di servizio, redatti sulla base di un’ora unica, ossia un’ora ferroviaria interna. Il personale doveva servirsi di due misure diverse di tempo, a seconda che rispondeva al pubblico o al servizio interno).
Si ripeteva, insomma, in campo internazionale, il medesimo inconveniente che si era verificato nei rapporti fra le varie città quando vigevano le ore locali; come queste avevano ceduto il posto alle ore ferroviarie e nazionali, ci si chiedeva se queste a loro volta non dovessero essere abbandonate per raggiungere un’unificazione mondiale.
La soluzione non era banale: dovevano essere sacrificate le ore nazionali e questo poteva creare problemi politici, ma si doveva anche arrivare all’unificazione senza grandi riforme radicali, perché la vita era regolata dal Sole e non dovevano essere imposte ore troppo diverse da quelle reali. La riforma radicale possibile era l’ora universale assoluta, proposta da Theodor von Oppolzer (1841-1886, direttore dell’Osservatorio Astronomico di Vienna) che estendeva semplicemente a tutto il globo e per tutti gli usi l’ora di Greenwich o quella di un altro meridiano di riferimento. In tutto il mondo gli orologi avrebbero segnato la stessa ora. Il giorno legale sarebbe cominciato su tutto il globo alla mezzanotte di Greenwich, quando però a New York erano le sette di sera, a Pechino le otto di mattina, ecc. quindi le parole oggi, ieri, domani, avrebbero perso ogni significato e si sarebbe andati incontro alla più grande confusione. Per esempio, con il tempo universale noi potremmo leggere di un americano della costa Est che si alza alle 11, tempo universale, e pensarlo un dormiglione. Se invece ci ricordiamo che l’ora di Washington è in ritardo di cinque ore su quella di Greenwich, ecco allora che il nostro amico americano si sveglia alle 6 tempo locale, e non è affatto un dormiglione.
Quirico Filopanti (pseudonimo di Giuseppe Barilli, 1812-1894), professore e politico bolognese, già nel 1859 suggeriva, nel suo libro Miranda (scritto durante l’esilio inglese), una geniale soluzione. Proponeva di dividere la terra per mezzo dei meridiani in 24 zone longitudinali, o fusi, che differivano l’uno dall’altro di un’ora, coincidendo nei minuti e nei secondi. Il primo fuso era centrato sul meridiano di Roma e comprendeva l’Italia, la Germania, la Svezia e parte dell’Africa. Se in questo erano le sei del mattino, nel secondo fuso procedendo verso Occidente sarebbero state le sette e cosi via. Filopanti introduceva inoltre un tempo universale da usarsi nell’astronomia e nei telegrafi. Per dare ai cittadini la conoscenza del tempo universale e del tempo locale gli orologi avrebbero avuto due sfere: una portante una lettera U per il tempo universale, l’altra con una lettera L per il tempo locale; la sfera dei minuti serviva per entrambi i tempi. Filopanti concludeva scrivendo che “quando un orologio ben regolato a tempo medio, universale o locale, batterà un’ora qualunque, tutti gli orologi del mondo suoneranno in quel medesimo instante, e indicheranno o quella stessa ora, od una qualunque altra ora intera”.
La proposta di Filopanti era molto pratica, anche se la sua inspirazione era etico-religiosa. Essendo la terra divisa nel senso della longitudine in 360 gradi, dividendo la superficie del globo in 24 zone, ogni zona viene ad essere limitata da due meridiani discosti di 15 gradi, a ognuna corrisponde l’ora del suo meridiano medio, discosto di sette gradi e mezzo dai due estremi. Con il sistema dei fusi orari si raggiunge la desiderata unificazione nella misura del tempo. Infatti, gli Stati compresi nello stesso fuso vengono ad avere la stessa ora, la differenza tra due fusi limitrofi è di un’ora precisa e le diverse ore sono facilmente paragonabili tra loro. Infine, si raggiunge l’unificazione del tempo senza discostarsi troppo dall’ora reale, perché la differenza fra l’ora normale e quella locale non supera mai la mezz’ora, adottando ogni Stato l’ora del fuso entro cui giace il suo territorio o la sua massima parte.
Perché allora quando si parla di fusi orari Filopanti viene raramente ricordato? Probabilmente perché la sua proposta era in anticipo (ricordiamoci che nel 1859 unicamente la Gran Bretagna aveva l’ora nazionale e la maggiore parte degli altri Stati era ancora regolata dalle ore locali) oppure non era nello spirito del tempo (nel 1872 il dibattito era sull’ora universale assoluta, dibattito che continuerà sino alla fine del secolo). Soprattutto, però, non c’era nessuna struttura economica forte disposta a sostenerla, come potevano essere le grandi compagnie ferroviarie o telegrafiche, le più interessate a stabilire un sistema per regolare il tempo.
Per capirlo trasferiamoci negli Stati Uniti d’America. Date le grandi dimensioni (in senso longitudinale) della nazione non era possibile un solo tempo ferroviario o nazionale; di conseguenza ogni compagnia ferroviaria aveva sviluppato un proprio orario. All’inizio del 1870 se ne contavano circa 50 e ogni città aveva un proprio tempo locale e tanti tempi ferroviari quante erano le linee che la servivano. Per esempio, nella stazione di Pittsburgh c’erano cinque orologi che indicavano i diversi tempi delle ferrovie e il tempo locale.
Charles F. Dowd (1825-1904), rettore di un collegio femminile a Saratoga Springs, NY, propose nel 1870 un System of National Time for Railroads fondato sulla longitudine. Il tempo di Washington sarebbe stato il tempo standard, lo Standard Time, e per omologare l’ora ferroviaria con l’ora locale, ad ogni multiplo di quindici gradi da Washington (che corrisponde ad un’ora, come abbiamo visto) si sarebbe tolta un’ora, dividendo gli Stati Uniti in quattro zone. Dowd presentò prima la sua idea ad una convenzione di sovrintendenti ferroviarie e poi in un opuscolo. L’opuscolo, che conteneva una descrizione dei principi scientifici su cui si basava la proposta e un esempio di orario per tutte le linee ferroviarie, ebbe un’ampia diffusione. Venne discussa unicamente l’opportunità dell’uso del meridiano di Washington che Dowd sostituì con il meridiano di Greenwich, già usato dagli Stati Uniti in campo marittimo (dal 1850). Sulla tomba di Dowd si trova una lapide di bronzo che riporta tra l’altro l’inscrizione: In solving the problem of standard time he proved himself a world benefactor. Incredibilmente, il contributo di Dowd alla definizione dello Standard Time è poco conosciuto non soltanto in Europa, ma anche negli Stati Uniti.
Contemporaneo di Dowd fu Sir Sandford Fleming (1827 � 1915), ingegnere capo delle ferrovie canadesi, che, generalmente, viene considerato l’inventore dei fusi orari. Non si hanno notizie di un suo interesse sul problema del tempo, prima del 1876 quando apparve una memoria chiamata Terrestrial Time, stampata privatamente, che venne poi riscritta, ampliata e pubblicata nel 1878. La memoria proponeva che gli orologi di tutto il mondo allo stesso momento indicassero la stessa ora, che Fleming suggeriva di chiamare Uniform Time o Terrestrial Time. In tale modo, se il suo sistema fosse stato adottato, si sarebbe usato il tempo locale per la vita di tutti i giorni, mentre, quando fosse stato necessario avere un’ora esatta sarebbe stato usato il Terrestrial Time. Un uso, anche se codificato per legge, che avrebbe creato grande confusione: basti pensare, ad esempio, agli stati distanti dal meridiano iniziale. Anch’egli proponeva un orologio con un doppio sistema di lancette per indicare i due tempi.
L’adesione al sistema dei fusi orari venne nel 1879, quando in una conferenza si propose l’estensione del sistema di Dowd al mondo intero. Fleming, che proponeva la creazione di 24 Standard Time che avrebbero dovuto sostituire il tempo locale in ogni zona e che avrebbero differito per multipli interi dal meridiano iniziale, ebbe parte importante nella preparazione della International Meridian Conference convocata nell’agosto del 1884 a Washington dal Presidente Chester A. Arthur per discutere della scelta di un meridiano iniziale (longitudine zero) e della creazione di un’ora internazionale per regolare l’amministrazione delle ferrovie, dei telegrafi e delle poste La stessa questione era già stata discussa alla conferenza geodetica di Roma del 1883, ma senza accordi. La ragione di questa unificazione era prettamente scientifica, producendo la mancanza di un’ora unica “perditempi incresciosi sentiti da color che in questioni di astronomia, di geografia fisica, di geologia, sono portati ad estendere le proprie ricerche a luoghi della terra disparati e lontani”. Nelle risoluzioni finali venne scritto che ” il congresso propone di adottare come primo meridiano quello che passa per il centro dello strumento dei passaggi dell’osservatorio di Greenwich il congresso propone inoltre l’adozione di un giorno universale, il quale venga usato in quei casi in cui si crederà utile, senza per questo proporre l’eliminazione dei tempi locali e di altri tempi ora in uso“.
Giovanni Celoria, allora secondo astronomo dell’Osservatorio di Brera, commentando le decisioni del congresso scriveva che ” dal punto di vista pratico e della vita civile l’ora universale ha un valore minimo. Sarebbe grottesco, per non dire peggio, che gli abitanti di San Francisco, ad esempio, dovessero contare mezzogiorno verso le quattro del mattino del loro tempo locale. Evidentemente gli affari e la vita degli abitanti di una data regione non possono regolarsi su altro tempo che sul locale, o al più su un tempo che dal locale di poco differisca ed abbia col tempo universale un rapporto assai semplice. Gli Stati Uniti hanno risolto il problema felicemente. Il paese fu quindi diviso in quattro sezioni, governate rispettivamente dal tempo dei meridiani che passano a 75, 90,105 e 120 gradi ovest dal meridiano di Greenwich�tutti differiscono dall’ora universale di un numero intero di ore per passare negli orari delle ferrovie e dei telegrafi da uno ad altro tempo basta cambiare l’ora, mantenere invariati i minuti e questo calcolo semplice e spedito non ammette errori e confusioni. In Europa le diverse nazioni, essendo in generale i loro territori poco estesi in longitudine, regolano adesso gli orari su tempo di uno fra meridiani nazionali. La sola riforma che dal punto di vista internazionale sarebbe utile sarebbe di scegliere come nazionali tempi che differissero fra loro e dal tempo universale di una parte aliquota o di un numero intero d’ore, rendendo in tale modo facile e spedito il passaggio dall’uno all’altro. Ma a questa riforma e al tempo universale nella più gran parte di Europa per ora non si pensa.”
Filopanti era arrivato agli stessi concetti 25 anni prima!
Comunque negli Stati Uniti e in Canada lo Standard Time entrò in vigore su iniziativa dell’American Railway Association a mezzogiorno del 18 novembre 1883 e rapidamente venne esteso a tutti gli usi civili. La molteplicità degli orari ferroviari e l’impraticabilità del tempo universale assoluto per scopi pratici era stata determinante. Fondamentale, per la sua introduzione, fu anche W.F.Allen, segretario della General Time Convention, che era l’organizzazione preposta all’orario e alla sicurezza delle linee ferroviarie: egli mostrò come l’idea dello Standard Time corrispondeva alle esigenze delle linee ferroviarie (infatti, il numero delle ore ferroviarie si ridusse da 56 a quattro).
Le opposizioni non furono molte: alcuni affermarono che il tempo locale era il tempo di Dio, altri si lamentarono della zona in cui erano stati inseriti e continuarono a usare il vecchio sistema orario. A New York in quel giorno vennero suonati due mezzogiorni, uno con il tempo locale e l’altro con lo Standard Time.
L’estensione dei fusi orari al mondo non fu immediata. Sostanzialmente le perplessità erano legate alla paura di perdere l’ora nazionale, di rendere facile la confusione delle ore dei vari fusi e di non avere delle linee ben definite di confine dei fusi, ma il vantaggio pratico che presentavano, e che li faceva preferire all’ora universale, fu determinate.
In Europa deciso sostenitore del nuovo sistema fu il tedesco Ernst von Hesse-Wartegg con il suo libro Die Einhetszeit nach Stundenzonen . Decisivo fu però lo schierarsi del maresciallo Moltke che nel 1891 ne invocò l’adozione da parte della Germania; forte era la paura che l’anarchia delle ore ferroviarie potesse essere causa di eventuali incagli e ritardi nella mobilitazione dell’esercito tedesco.
In Italia il sistema venne adottato il 10 agosto 1893 con regio decreto (il meridiano che dà il tempo al fuso nel quale sta l’Italia, e che è il secondo, passa per l’Etna). Nella notte del 31 ottobre gli orologi delle amministrazioni ferroviarie e governative furono mandati avanti di 10 minuti, essendo questa la differenza fra il tempo di Roma e quello dell’Europa Centrale e cosi il nostro paese realizzò “nella sua migliore parte, quella trasformazione dell’ora che un italiano di molto ingegno Q. Filopanti immaginava primo fra tutti, fin dal 1859″.
Nel 1897 praticamente tutti i paesi europei avevano adottato il sistema delle zone orarie con la sola eccezione della Francia. Questo paese, solo con una legge del 1911, adottò il tempo di Greenwich, dichiarando però che si trattava del tempo di Parigi ritardato di 9 minuti e 21 secondi.